Qualche lustro fa l’enfasi salutista e la retorica purista diogenea, quella che porta dritti dritti al chilometro zero, non aveva ancora un peso di mercato e non era dunque maturato il dualismo tra quelli che oggi arditamente vengono definiti vini naturali e il resto dell’universo in bottiglia che oggi è malevolmente definito vino convenzionale. Una quindicina d’anni fa, a Capriglia Irpina, la Locanda Carafilia offriva saporito, accogliente e tranquillo rifugio ai viandanti in eterna ricerca di tregue da dispiaceri e avvilimenti quotidiani. Fu in quell’ambiente discretamente elegante, crudelmente sottrattoci dalla crisi economica, e non solo, di questi anni che una sera mi fu proposto di accompagnare la cena con una bottiglia di Pratoasciutto, “vino di un nostro giovane conterraneo trasferitosi in Piemonte”.
Riporto da un mio appunto dell’epoca: inconsueto e stupefacente vino rosso dai profumi intensi e profondi, come profondo del resto è il colore, muschioso, avvolgente, sconfinato. Da quella sera il Pratoasciutto è entrato nel personale empireo dei Top Wine il cui valore e pregio si è, come tipicamente avviene per il ricordo degli attimi il cui piacere si scolpisce nei nostri sensi, accresciuto nel corso di tutti gli anni in cui ne ho cullato il ricordo.
Serbato gelosamente in cantina in attesa dell’occasione giusta, presentatasi nella veste poco seducente ma molto gaia di una mail che annuncia il “visto si stampi” del promo libro dell’autore di questo articolo, a pochi minuti dallo stappo, presenta una consistenza ed una profondità di colore quasi ematica. Note ossidative evaporano in qualche minuto e lasciano il campo a sentori di prato bagnato, macerato, frutta surmatura trasudante, cuoio, cacao, tabacco umido.
Un un vino che come la terra va scavato; richiede cura, tempo, dedizione. Dopo tempo ancora resta in bocca un essenza di tostatura ed umidità.
Ci si potrebbe chiedere se sia giusto o normale che un vino debba richiedere simili impegni di conoscenza, ma è una domanda subdola e sostanzialmente inutile. Come una composizione di Ravel o un romanzo di Pessoa o una poesia di Elliot il piacere più alto, l’apprezzamento più profondo è riservato a chi si impegna per penetrare il senso di ogni parola, di ogni sfumatura.
Dopo una decantazione di sei ore il vino recupera brillantezza di colore e leggerezza di profumi, alle note animali, legnose, umide si associano ora una freschezza floreale e la delicatezza di spezie dolci, vaniglia in primis. Anche al palato si recupera una freschezza che accompagna la presa dei tannini; nel complesso il vino recupera soavità. Ciò che prima andava scavato, dissotterrato, l’ossigenazione ha portato in superficie, come se un vento avesse spazzato via la polvere e l’ossido dalla superficie di un vassoio d’argento.
Resta una persistenza non comune.
Dopo ventiquattrore l’aria e la gravità restituiscono al Paratoasciutto limpidezza di colore e di aromi. Il rubino profondo diventa vivace, l’impatto olfattivo è completamente ripulito e restituisce note di frutta sottospirito, anche l’ingresso in bocca ha uno slancio diverso, più suadente, ferma restando la complessità e le caratteristiche già riscontrate al secondo assaggio.
Guido Zampaglione da Calitri, dove la famiglia ha vigneti e produce Fiano, ha trovato in Monferrato l’habitat ideale per la sua passione: “qui si vive per il vino, da chi fa le attrezzature fino al vecchio vignaiolo con grande esperienza e che ha anche il piacere di trasmetterla e questo per me è stato importante”.
Il rapporto con una terra simile conduce all’essenza, alla verità che è solo fatta di vino e non ha bisogno di etichette e così ancora oggi Zampaglione che pure produce con soli lieviti indigeni, con lunghe macerazioni, con limitatissimo impiego di solforosa, con trattamenti delicati in vigna, non identifica i suoi vini con codificazioni mercantilistica.
Voce solo al vino, dunque.
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