Racconto

DI QUANDO E COME DOMINEDDIO CREO’ IL MONFERRATO
 Racconto scritto da Laura Pariani, ospite alla Tenuta Grillo


alla piccola Viola



   Al principio il mondo era un deserto in cui Domineddio andava avanti e indietro sbadigliando e alzando nuvole di polvere a ogni passo. Qualche volta, quant’era stanco di quella solitudine, si faceva due chiacchiere con il Nuto di Gamalero, che la sapeva lunga visto che era vecchio quasi quanto lui. Giusto due chiacchiere, perché in quel deserto non c’era molto da dire o da fare.
   Un giorno Domineddio arrivò dal Nuto con un’espressione eccitata: «Voglio creare qualcosa, è da un’eternità che cerco qualche ideuzza. Anzi, per essere preciso, me ne occorrono sei, di ideuzze: ché questo è il numero giusto, se si voglion fare le cose per bene. Ma non è mica facile trovarle...»  
   «Difficile è soltanto pestare il fumo e insaccare la nebbia» rispose il vecchio Nuto, arricciandosi i baffi bianchi. «Dammi retta: per cominciare, fa’ una fila di colline, poi un’altra dietro, e un’altra ancora, ma più piccola, perché più lontana. Di tutti i verdi possibili, mi raccomando.»



LUNEDI’

   Il lunedì, di buon mattino, Domineddio si mise a scolpire nella polvere. In un baleno apparvero versanti di poggi rigati di vigne e, più in là, il verde scuro dei noccioleti e quello tenero dei prati a primavera; un attimo dopo, già si udivano le capre darsi la voce da un poggio all’altro. Poi si cominciò a sentire la canzone dell’acqua nei gorghi scuri dei torrenti:

Acquetta bell’acquetta,
se non avessi fretta
ne berrei ‘na scodelletta...

   «Questa è la prima cosa e va bene» disse Domineddio alla fine del lunedì, sfregandosi con soddisfazione le manone sporche di terra grassa. «Ci vorrebbe però un bel nome da dare a questa terra.»
   «Che ne dici di Monferrato?» propose il Nuto, che di idee ne aveva una sporta.
   «E vada per Monferrato: suona bene» disse il Padreterno soddisfatto.



MARTEDI’

   Il martedì, quando Domineddio stava per rimettersi all’opera, il Nuto gli suggerì: «Sul bric più alto prova a metterci una cascina.»
   Il Padreterno non se lo fece ripetere: trich e trich trech, la costruzione venne su grande e bianca, coi tetti di coppi rossi, l’aia per le oche, il bucato gonfiato a forma di vela, il fienile ombreggiato da un noce. 
   «Facci una finestra aperta che d’estate possa entrarci dentro un gluglu di tacchine e quel profumo di fieno che va alla testa» raccomandò il Nuto. «E non dimenticare la scala della cantina, da dove si sente il vino respirare nelle botti mentre si aspetta la luna di marzo.»
   Faceva caldo, perciò mentre lavorava Domineddio si mise il cappello per ripararsi la fronte dal sole. Alla fine del martedì, comunque, la cascina era bella e fatta e il Padreterno, col cappello spinto sulla nuca come un’aureola, la contemplò con occhi brillanti: dalla porta della cucina aperta usciva perfino l’odore carnale dei peperoni ripieni e quello dei fiori di zucchina fritti in pastella. Come tocco finale, sulle colline tutt’intorno fece spuntare cascine minori come punti bianchi, che sembravano lontane ma erano a un tiro di schioppo.
   E Domineddio disse: «E anche la seconda è andata. E va bene.» Così passò il martedì.



MERCOLEDI’

   Il mercoledì mattina Domineddio cercava la terza idea.
   «Devi metterci un castello» consigliò il Nuto, guardando lontano. «In un posto che hai chiamato Monferrato, un castello ci starebbe proprio bene.»
   Domineddio si battè la fronte: come aveva fatto a non pensarci? Certo che ci voleva un castello, altrimenti che Monferrato sarebbe stato? Anzi più d’uno, meglio abbondare. In un amen, a incoronare le colline comparvero costruzioni scure e massicce; qua e là tra i boschi sbucarono torri e torrioni insieme a rondini che riempivano l’aria di voli sghembi e strida.
   Domineddio lavorò di lena tutto il mercoledì, cantando allegro:

Al castel l’è bel
latantirolirolera,
al castel l’è bel
latantirolirolà...

   Un quadro perfetto, si congratulò Domineddio con se stesso, guardandosi intorno alla fine della giornata: ché, se si fissava ogni castello con attenzione, si capiva che dietro le feritoie stavano già in agguato le guardie con la loro ombra di ferro; e che, in un un silenzio che imitava la linea ondulata dell’orizzonte, nel buio del fossato si aggiravano i briganti Cric e Croc che avevano fatto lega assieme.
   «Bene» disse Domineddio. «Anche la terza cosa è fatta. Siamo a metà dell’opera...» e andò a letto di buonumore.



GIOVEDI’

   Il mattino del giovedì, quando cantò il gallo, Domineddio disse al vecchio Nuto: «Ora che il paesaggio del Monferrato c’è nelle sue linee essenziali, che te ne pare se ci traccio le strade?»
   L’altro fece un cenno di assenso col suo gran barbone bianco.
   E le strade furono: una che dalla cima del colle scendeva a valle a capofitto per poi risalire sul versante opposto; un’altra tutta a curve che la corriera per Alessandria infilava strombettando, prima di sparire lasciando dietro sé una gran nuvola di polvere. A uno steccato, il Padreterno poggiò una bicicletta: «Per quando verrà l’ora del Faustino col cuore ai piedi...» disse come se già pregustasse il sapore della Coppa del Mondo.
   E fu sera. «Anche la quarta cosa l’ho conclusa bene» disse Domineddio, sudato e impolverato, ma felice.



VENERDI’

   «Non vedi che mancano le figure?» gli fece notare con discrezione il Nuto, la mattina del venerdì.
   «Ah, già» sospirò Domineddio. E dagli dentro allora, impastando la polvere e soffiandoci la vita. Prima di tutto ci mise i vignaioli come angeli sospesi tra i filari, a vendemmiare veloci per paura della pioggia: ché Gioan dla vigna un poco a pians e un poco a ghigna.
   «Chi è che se l’è viv tücc a lo scansu, sa l’è mort tücc a lo basu?» chiese il Nuto a metà mattina.
   Domineddio alzò la testa sorpreso. «E’ mica l’ora degli indovinelli, caro il mio compare» borbottò.
   «Sarà anche vero, però è tempo che crei il porco» disse il Nuto ridendo. E allora il Padreterno, vicino alla porcilaia della cascina, proprio lì su due piedi fece spuntare il masa-crin che affilava il suo coltello e inseguiva un porcello bello grasso. Dalla parte opposta, sotto il portico, comparvero le donne di casa intente a avvolgere in foglie di verza il macinato di maiale insaporito di ginepro, pronto da cucinare.
   Il prato era vuoto, perciò il Padreterno ci mise un pastore in mezzo al gregge: «Si chiamerà Gelindo» spiegò al Nuto, «e ogni anno non mancherà nel presepe che si costruirà per Natale col muschio raccolto sotto i castagni.» Ché nelle parole di Domineddio il Nuto percepì il brivido di lunghi inverni di neve, con corvi brugheliani pronti, a un battere di mani, a svolare via con un grande strepito d’ali, lasciando le colline solitarie e bianche.
   Sulla strada, invece, il Padreterno mise il cavagnè con le sue ceste e l’acciugaio a tirare il suo carrettino; più lontano, sulla pedaggera, sistemò i ragazzi che in quaresima andavano da una cascina all’altra a “cantar le uova”, augurando: Bona seira, sur patrùn, cun ra sura patrun-nha, per farsi regalare un tocco di frittata rognosa.
   «Manca qualcuno?» domandò Domineddio al Nuto, guardandosi intorno.
   «Là, vicino a quel bosco di querce, ci sarebbe posto anche per un cacciatore col suo cane.»
   Detto fatto: eccolo venir su dalla polvere, con la giacca di fustagno dalle tasche grandi da cui spuntava un fazzolettone a quadrotti. A quel punto il Nuto, che non stava più nella pelle, disse a Domineddio: «Aspettami un momento che, adesso che ho compagnia, faccio due tiri...» e, messosi in spalla uno schioppo si inoltrò nel querceto. Poco dopo tornò e nella giberna aveva una lepre: «Questa, Signore, stasera te la cucino io, nel Barbera» dichiarò con un largo sorriso.
   Arrivati in cascina, infatti, il Nuto pigliò un coltellaccio, lo arrotò con la roncola che portava sempre con sé, spellò la lepre, la fece a pezzi e la mise a cuocere in un tega me largo. Era bella grassa e ne veniva un profumino così invitante che gli fece venire l’acquolina in bocca. Assaggiò per vedere se era a puntino – e era così buona... La coratella poi era già cotta. Una vera tentazione. «E se me la mangiassi io, ‘sta coratella, con questo tocchetto di pane?» si disse. «Figurarsi se Domineddio se ne accorge...» Non stette a pensarci due volte: infilzò la coratella con la forchetta e la ingoiò in un boccone. Poi avvisò il Padreterno che la cena era pronta: «Sentirai, Signore. Una delizia da leccarsi i baffi.»
   «Già pronta?» si stupì Domineddio. «Bravissimo! Porta pure in tavola.»
   Il Nuto, reggendo con una mano il tegame e con l’altra pulendosi i baffoni dal grasso, se ne venne in tavola e servì la lepre: metà nel piatto del Padreterno, l’altra metà nel suo.
   «Complimenti al cuoco!» fece Domineddio, contemplando il suo piatto fumante. Poi, mentre rimestava con la forchetta nel suo piatto, ebbe un soprassalto: «Ma la coratella dove è finita?»
   Accidenti, il Nuto l’aveva fatto il marrone! Restò lì senza sapere cosa dire, poi se ne uscì con la sua faccia di tolla: «Forse, Signore Iddio, ti sei dimenticato di fare alle lepri la coratella...»
   Il Padreterno sorrise ironico: «Già, dev’esser proprio così.» Poi in silenzio ciascuno dei due spazzolò il suo piatto. «Anche senza la coratella, questa lepre era ottima. E ora andiamo a dormire: ché anche la quinta cosa è fatta, e va bene» disse alla fine Domineddio, alzandosi da tavola sazio.



SABATO

   Il Nuto passò la notte un po’ inquieto, perché gli rimordeva un po’ la faccenda della coratella. All’alba, si era appena addormentato quando Domineddio lo svegliò. «In piedi, poltrone» gli disse, «Oggi è sabato e ci manca di fare un vero paese del Monferrato.»
   In quattro e quattr’otto, a un incrocio di strade, spuntò un paesino intorno a una chiesa di mattoni, con i santi di stucco nelle nicchie della facciata.
   «Ma dov’è la gente?» chiese Domineddio fermandosi nella piazza vuota del primo pomeriggio.
   «Per tutto il mattino ognuno ha il suo daffare» spiegò il Nuto. «Ché in Monferrato quel che conta è: primo, non star mai con le mani in mano; secondo, fare i propri interessi; terzo, tener da conto perché tutto serve, anche le unghie per pelare l’aglio... Vedrai, Signore Iddio, verranno tutti fuori dalle case quando il sole comincia a sbassarsi.»
   E infatti, a pomeriggio avanzato, le panche sotto gli ippocastani della piazza si andarono popolando: gli uomini su un tavolo all’ombra cominciarono a giocare a carte, sudando e alzando la posta, con facce che parlavano di fedeltà alla terra; dei vecchi – chiacchiera va, chiacchiera viene - si buttarono a tazzare col Freisa e a contare storie di malora, che sta sempre in agguato anche se uno mica si mette mica a cercare di sua volontà la terribile semenza dei dispiaceri e dei gratacü. Ma era un raccontare mite, ché ai vecchi del Monferrato Domineddio diede una parlantina che non era vizio, ma ricchezza.
   A quel punto, mentre il pomeriggio volgeva al termine, perché la pancia non diventasse lunga dalla fame, il Padreterno fece venire dall’osteria una donna con un tagliere e annunciò: «Gente, ci ho qui la merenda con un formaggio ciucco alle vinacce, da far resuscitare i morti.» E tutti allora ci diedero dentro, in attesa che venisse presto l’ora di cena e le mogli scodellassero nel tovagliolo i ravioli dal plìn, da gustare senza sugo tanto era saporoso il ripieno. Il piatto del formaggio fu svuotato in un batter d’occhio. «Chi è lesto a mangè, è lesto a travajè» commentò il Nuto mentre accompagnava Domineddio a fare un giro del paese.
   Il Padreterno contraccambiò la gentilezza permettendo al Nuto di vedere l’interno di una casa, come se avesse le pareti trasparenti: davanti a un camino una nonna chiedeva ai nipoti:

Mi so ‘na storia bela
ch’a fa piasì contela.
Veuti ch’it la conta?

e per tutta risposta si sentì la risata dei bambini, ché ognuno di loro sapeva che bastava rispondere di sì e la filastrocca poteva andare avanti sempre uguale, all’infinito. Sotto un portico un’altra vecchia stava recitando un incantesimo, in una cantilena veloce; Domineddio si fermò a ascoltarla senza curarsi di comprenderla, semplicemente affascinato dall’incanto della lingua, rabbrividendo al sentire sul collo il respiro delle streghe, che avevano il loro covo nei castagneti e di nascosto possedevano il libro del comando:

La bissa la bissa
la ven de Rumma
quand chi disu
la curun-nha...

   In quel momento, tictac tictac, la grande sveglia sulla credenza segnò l’ora di preparare la cena: nella cucina, sotto le volte annerite di fumo, un fuoco allegro lambì il pentolone dove borbottava una minestra di gallina grassa, facendo brillare gli occhi di un gatto.
   «Stasera, per festeggiare, si va all’osteria dei Tacconotti» dissero all’unisono Domineddio e il Nuto; e risero come compagni di gioco che hanno avuto la stessa idea.
   Inutile dire che la cena fu grandiosa quanto le loro aspettative: torta di erbe selvatiche, paniccia fritta, bagna caôda, corzetti al sugo di funghi – e qui Domineddìo fece il bis-, vitello tonnato, ciapilaia, timballo di pere, pesche con l’amaretto...
   «Fatta anche la sesta» disse Domineddio che a quel mangiare era andato in gloria, tanto più che si era scolato una bottiglia di “Pecora nera” che Guido, il vignaiolo della tenuta Grillo, aveva portato alla loro tavola: «Fatto mescolando Freisa, Barbera, Dolcetto e Merlot» aveva spiegato, «Gustatelo e poi mi darete un giudizio.»
   «Benedetto uomo!» disse il Padreterno, sentendosi beato dopo tanto lusso e spatusso. E il Nuto intonò:

Che la vada come sia
di fastidi an humma mìa,
che la vada come vuol
i fastidi li ha chi vuol...

    E, sotto il tacere della luna, se ne andarono tutti e due a letto, con l’animo leggero.



DOMENICA

   La domenica Domineddio non sentì suonare la sveglia e per un attimo gli venne l’angustia di essersi svegliato troppo tardi.
   «Calma» disse il Nuto, accogliendolo in cucina con un una tazza di caffè e una fetta di torta di more. «Oggi è festa.» E allora Domineddio sorrise, perché, dopo tanto lavoro, era giusto anche riposarsi.
   Così per tutta la giornata andò a spasso per il Monferrato appena creato. La parte migliore era senz’altro la vigna: si capiva a colpo d’occhio, che lì dentro c’era tutta la forza del paesaggio, in quella festa di grappoli neri. Si sarebbe potuto anche dire che non mancava più niente, ma Domineddio era un perfezionista e, ogni tanto - ma senza sforzarsi - fece qualche ritocchino qua e là: gli venne in mente, per esempio, che mancavano un cimitero ventoso in cima a un colle e la punta di un campanile dietro un bosco di noccioli; senza contare un tramonto con nuvole color fiamma – che senso ha, infatti, un paesaggio di colline senza nuvole?... Da una balconata spaziò con lo sguardo fin dove, per la lontananza, le ultime colline non erano più che una nuvola d’incenso di chiesa.
   Quando scurì, nelle case si levarono le prime fumate azzurrine, i pioppi lungo il fiume si misero a stormire e una voce nel canneto cantò:

Rana, rana!
Chi mi chiama?
L’amor tuo che poco t’ama.
Se non m’ama m’amerà
quando bella mi vedrà...

   All’ingresso di un paesino, Domineddio accese allora le luci di una fiera, visto che era giorno di festa: di modo che ciascuno dopo una settimana di fatiche potesse fare una bella figura, blaghè, tirar su la testa davanti ai vicini. Ecco nascere dal nulla bancarelle e spassi e pigia-pigia di gente. L’aria si riempì di risate sulle note di un vecchio juke-box. Di corsa arrivò il Nuto col suo clarinetto e si tirò dietro Domineddio a cantare fino a notte fonta, in una fresca cantina che odorava di mosto.